martedì 9 febbraio 2016

LA CROCIFISSIONE



   


Nel 1942, in piena guerra, viene indetta la terza edizione del Premio Bergamo e Renato Guttuso si piazza al  secondo posto con la sua Crocifissione. Si tratta di un dipinto di notevoli dimensioni affollato dai personaggi del racconto evangelico e al quale il pittore ha lavorato per due anni. La composizione è fuori dall’iconografia tradizionale. Si moltiplicano i punti di vista: le tre croci sono disposte in diagonale e il viso del Cristo è nascosto dalla croce di uno dei due ladroni, sicché possiamo solo immaginare la smorfia del dolore sul suo volto. Il paesaggio non evoca il Golgota, ci sono degli edifici realizzati in modo sintetico che  forse vogliono dire che si tratta di una città bombardata. In primo piano appaiono gli strumenti del martirio. Tutto è reso con colori violenti e crudi, con un effetto di realismo intriso di pathos.
  Fra i personaggi c’è, a cavallo, il centurione che ha in mano l’asta con in cima la spugna imbevuta di aceto, c’è l’uomo che si gioca a dadi la tunica di Gesù, e c’è la Maddalena, nuda. È soprattutto la resa di questa figura che sarà motivo di scandalo specialmente negli ambienti ecclesiastici meno avveduti. A Guttuso viene dato l’appellativo di pictor diabolicus, per aver realizzato un’opera blasfema e immorale.        
    L’Osservatore romano parlerà di questo dipinto come di “un baccanale orgiastico, un oltraggio crudo e villano verso la nostra fede”. Il vescovo di Bergamo vieterà ai fedeli la visione del quadro e stabilirà di sospendere a divinis i membri del clero che fossero andati a vederla. Si chiede che il dipinto venga ritirato dalla mostra, ma la proposta non è accolta.
    Passeranno gli anni e negli ambienti cattolici avverrà un ripensamento. Monsignor De Luca dirà che nell’occasione si era ceduto solo all’impulso a protestare e a condannare senza sforzarsi di comprendere. Padre Turoldo scriverà che il quadro di Guttuso è “una narrazione di natura biblica, di una Bibbia in fiamme mai finita come in grado di proiettarsi nel futuro che è la nostra vita”.
   Già alla presentazione del quadro Guttuso non aveva nascosto le sue intenzioni: ”Questo è tempo di guerrra e di massacri. Volevo dipingere questo supplizio del Cristo come una scena di oggi, come simbolo di  tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee”.

GUERNICA






Gernika, 26 aprile 1937. Quattro bombardieri tedeschi sganciano sulla cittadina basca un carico di bombe che spargono morte e rovina. È la prima volta nella storia che l’aviazione viene usata per colpire la popolazione civile. Franco aveva chiesto all’alleato germanico di dare al popolo basco questo sanguinoso ammonimento contro ogni segno di indipendenza e di rivolta. Non si saprà mai con precisione il numero dei morti.    
Scoppia in Picasso, che è al culmine del successo, la rabbia e l’indignazione e si dedica alla realizzzazione di un quadro dalle dimensioni straordinarie. Fa alcune prove di colore, ma rinuncia, il dipinto vivrà solo del bianco e del nero. “Era troppo in collera”, dirà Man Rey, “per darsi la pena delle sottigliezze del colore”.

Sul lato sinistro del dipinto c’è la testa di un toro che incombe sul volto di una donna che stringe fra le braccia il figlioletto morto, una sorta di Pietà laica. Sotto la donna c’è spazio per un uomo che ha in mano una spada spezzata. Al centro Picasso dipinge un cavallo straziato, simbolo delle vittime del franchismo. Sulla destra figura una donna con le braccia alzate che chiede aiuto e vendetta al cielo, e tutto il quadro presenta particolari di braccia, gambe, piedi.

Al suo primo apparire Guernica non fu accolto con unanime favore. né da parte di  dirigenti repubblicani né da parte di qualche intellettuale come Luís Aragón e Rafael Alberti. Particolarmente duro il giudizio di Buñuel: “Detesto tutto di quel quadro dalla fattura magniloquente alla politicizzazione a ogni costo della pittura”. Anche Sartre trovava esagerata la simbologia sottesa al dipinto.
Di parere opposto lo scrittore Jean Casson: “Prima di ora la pittura di Picasso aveva rifiutato ogni significato, Guernica, invece, trabocca di presenza, di sogni, di grida”. 
E c’è chi pensa che Guernica rappresenti per l’arte moderna quello che la volta della Sistina ha rappresentato per la pittura del Cinquecento.

L'UOMO CHE CONTROLLA L'UNIVERSO

   



I pittori muralisti messicani intendevano tenere viva l’idea rivoluzionaria e parlare al popolo nel modo più diretto con una pittura da realizzarsi su ampie superfici aperte a una fruizione  collettiva. Il più famoso di loro è Diego Rivera.
 Nel 1921 realizza una composizione allegorica sul tema della nascita del popolo messicano: fulgore e decadenza degli indios, attuale miseria dei peones. Tutto reso con una tavolozza ricca di colori aspri e suntuosi. 
   L’anno dopo Rivera lascia il suo paese e va negli Stati Uniti perché, dice, “sentivo che mi mancava un’esperienza per poter veramente dipingere il mondo moderno in ogni suo aspetto, mi mancava l’esperienza della civiltà meccanica, l’esperienza della vita industriale”. Ottiene una grande affermazione con un affresco raffigurante l’Allegoria della California nel quale celebra i cercatori d’oro, gli ingegneri, gli operai che hanno installato i pozzi di petrolio determinando lo sviluppo economico di quello stato.
    Sull’onda di questo successo, John Davidson Rockefeller, il più grande imprenditore di ogni tempo nel campo dell’industria petrolifera, lo convoca a New York e gli commissiona un trittico per il Rockefeller Center, un edificio sulla Quinta Strada destinato a essere considerato l’emblema del capitalismo. E qui il successo del pittore messicano negli Stati Uniti ha fine, perché durante la lavorazione del murale, nel quale ha l’aiuto del giovane Ben Shahn, avviene un incidente di carattere politico. Nell’affresco che aveva per tema L’uomo al bivio in cerca di un futuro nuovo e migliore, Rivera ha raffigurato Lenin come fondatore di uno stato socialista capace di superare i conflitti sociali. Rockefeller ritiene l’inserimento del ritratto del leader comunista come un insulto personale e chiede a Rivera di cancellare dall’affresco il volto di Lenin ma il pittore si rifiuta di farlo. Le pressioni degli azionisti del gruppo e degli organi di stampa convincono i Rockefeller a sospendere i lavori e poi a demolire la parete affrescata.

  Rivera ritorna in patria e dipinge lo stesso murale nel Palazzo delle Belle Arti a Città del Messico.


L'ASSENZIO


  


 Dopo l’Olympia, un altro dipinto susciterà scalpore a Parigi. Si tratta del quadro In un caffé che Edgar Degas presenta nel 1876 alla seconda mostra degli impressionisti con il titolo In un caffé, che presto verrà mutato in L’assenzio. La scena ha una precisa ambientazione: è un angolo della Nouvelle Athenes, il caffé prediletto dagli artisti del’epoca. I due personaggi dovrebbero rappresentare un clochard e una donna di facili costumi inebetiti dall’assenzio, un distillato di alta gradazione alcolica che verrà più avanti proibito per i suoi effetti stupefacenti.
   In realtà si tratta di una coppia di amici di Degas che si prestano a interpretare i ruoli assegnati loro dal pittore.  L’uomo è Marcelin Desboutin, un buon pittore ma soprattutto un ottimo incisore che aveva a sua volta ritratto Degas, ma anche Manet, Renoir, Berthe Morisot.
  Lei è Ellen Andrée, una donna di grande fascino che aveva iniziato la sua carriera professionale come modella: è la giovane con il bicchiere  in mano al centro della famosa Colazione dei canottieri di Renoir. Ma aveva posato anche per Manet e Toulouse-Lautrec. Era divenuta attrice di successo in ruoli brillanti presenti nelle commedie di Courteline e di Sacha Guitry. È Ellen Andrée che pretende che Degas faccia sapere a tutti che lei è del tutto astemia. Ma intanto copre il suo ruolo con professionale perfezione: si è vestita nel modo più trasandato, ha ai piedi delle vecchie scarpe e in testa un cappellino in posa instabile.
    I due personaggi sono vicini ma non comunicano tra loro, lo sguardo è perso nel vuoto. Degas ci fa sapere che esiste un terzo personaggio non raffigurato ma la cui presenza è data da un giornale e da un calamaio posati sul tavolino, ed è dal suo punto di vista che noi assistiamo alla scena.
 L’opera provocò grande scandalo fra i visitatori più ottusi e superficiali che vollero vedervi la rappresentazione del vizio e dell’abbrutimento. Peggiorò la situazione il fatto che Zola ammise di aver preso ispirazione da un quadro come questo per certe pagine dell’Assomoir.
  Alcuni anni dopo anche Picasso tratterà il tema dei bevitori di assenzio con gli stessi esiti di struggente malinconia.

LA CULLA

    


Quando nel 1874, nei locali messi a disposizione dal fotografo Nadar, viene inaugurata la mostra di pittori riuniti sotto la sigla di ”Societé Anonyme des Artistes”, viene coniato il termine "impressionisti", ma in senso nettamente  dispregiativo. C’era chi affermava che questi pittori dovevano soffrire di una sconosciuta malattia degli occhi, c’era chi si affrettava a pulirsi gli occhiali non
potendo credere che quei quadri avessero un senso.


   C’era chi diceva che questi pittori avevano preso delle tele, dei pennelli, dei colori e gettato a caso sulle tele qualche macchia e la loro firma. Questo era quanto pensava la maggioranza del pubblico.
  Particolarmente feroci furono le critiche nei riguardi del quadro dell’unica donna presente alla mostra, Berthe Morisot, La culla. Louis Leroy trovò l’approvazione dei  lettori  dello Charivari quando scrisse che a questa pittrice “non interessavano i dettagli: se doveva dipingere una mano le bastava dare tante pennellate in lunghezza quante sono le dita e il problema era risolto”. Altrettanto duro era stato Albert Wolff  che nel Figaro  scrisse: “La pittura della Morisot è al limite di uno spirito in delirio”. Non meno benevolo è Jean Messire su Le Soir: “Credo che se Berthe Morisot volesse imparre a  disegnare e a dipingere potrebbe ancora imparare a disegnare e a dipingere”.
   Sul fronte opposto è Georges Rivère che su L’Impressioniste difende le ragioni della nuova pittura e dichiara che la sua critica si limita a poche righe perché l’opera non ha bisogno di essere difesa. E Jules-Antoine Castagnary nella sua recensione della prima mostra degli impressionisti afferma che “non si trovano in questa esposizione immagini più graziose e delicate. L’esecuzione è in pieno acccordo con l’idea che l’artista ci voleva comunicare”.
  All’accoglienza favorevole della critica più avveduta farà riscontro un certo successo commerciale che si prolungherà nel tempo. Il quadro Cache-Cache, che la Morisot aveva presentato assieme a La culla, nel 1999 viene venduto da Sothebys a New York per quasi quattro milioni di dollari.
                                               

OLYMPIA

  


Nel 1865 Manet presenta al Salon il suo dipinto Olympia. Il pittore dichiara di essersi ispirato alla famosa Venere di Urbino di Tiziano che aveva copiato durante un soggiorno a Firenze. Ma il risultato è un contrappunto assolutamente dissacrante. Quella di Tiziano è una nobildonna, giunonica e morbida, che è nuda perché aspetta che le portino i vestiti. E comunque tutto si svolge in un ambiente raffinato. 
  Il quadro di Manet rappresenta una donna nuda distesa su un letto disfatto, lo sguardo diretto in segno di sfida verso l’osservatore, con una sfrontatezza decisamente volgare: ha dei fiori tra i capelli, una pantofola infilata nel piede, l’altra lasciata cadere. Nella mano destra stringe una rosa, l’altra mano copre il sesso. La moderna Venere non è un ideale di bellezza:  il corpo è magro, il collo tozzo, le gambe corte. 
   All’epoca la raffigurazione del nudo era ammessa anzi ipocritamente apprezzata, ma solo in dipinti di soggetto mitologico o di ambientazione esotica. Qui il nudo, invece, era calato in una situazione contemporanea con un’audacia assolutamente nuova.
   Ci fu chi credette di riconoscere nella donna una nota prostituta parigina ripresa sul posto di lavoro in attesa del prossimo cliente che si è fatto anticipare da un mazzo di fiori. Si trattava, invece, di una modella professionale che Manet aveva già utilizzato  nella Colazione sull’erba. 
    Rifiutata al Salon ufficiale, l’opera venne esposta nel Salon des Refusés. Ma anche qui provocò critiche aspre e violente: ci furono visitatori che afferrarono gli ombrelli e tentarono di sfregiarla. Il quadro fu sistemato sopra una porta in modo che pochi ci facessero caso. Ci furono naturalmente critiche più inerenti alle caratteristiche formali del dipinto. Si rimproverò il contrasto troppo elementare tra il bianco-luce e il nero-oscurità. E di quel nero Théophile Gautier disse che gli sembrava un colore da lucido di scarpe.
   Dopo la morte di Manet, Claude Monet, che ormai aveva acquisito fama e autorevolezza, si fece promotore di una sottoscrizione per far acquistare l’Olympia dallo Stato e il quadro venne accolto nel Museo del Luxembourg. Oggi è considerato uno dei dipinti che hanno segnato la nascita della pittura moderna.

LA COLONNA VENDÔME

   

Nei giorni della Comune viene istituita a Parigi la Federazione degli artisti che si propone di salvare le opere d’arte e i monumenti dal pericolo dei bombardamenti. Durante una seduta Courbet dice che bisogna scardinare (debulloner) la Colonna Vendôme. Però, presagisce il pittore, “Vedrete che questa colonna mi schiaccerà”.
  In epoca napoleonica si era pensato di portar via da Roma a pezzi la Colonna Traiana per ricomporla e inalzarla al centro di Place Vendôme sfruttando la forma ottagonale che ha quella piazza. Fortunatamente questa che sarebbe stata la più clamorosa razzia perpretata dai rapaci funzionari napoleonici, avrebbe comportato un troppo complicato sforzo logistico. E si rinunciò all’impresa.
Si pensò allora di costruire una enorme colonna alta quarantaquattro metri e composta da novantotto cilindri di pietra che poi sarebbero stati ricoperti dal bronzo ricavato  dalla fusione dei cannoni requisiti agli austriaci e ai russi nella battaglia di Austerlitz.
  Una schiera di scultori modellarono quattrocentocinque placche in bronzo con le quali furono ricoperti i cilindri di pietra, dando luogo a un ininterrotto bassorilievo a spirale, a imitazione della Colonna Traiana. Rapppresentavano settanta scene relative alle campagne militari condotte da Napoleone Bonaparte. Napoleone III fece collocare in cima alla colonna una statua di Napoleone  in veste di imperatore romano.      
  I comunardi accettarono la proposta di Courbet e decisero di demolire questo monumento perché lo vedevano come un segno di barbarie, simbolo delle atrocità della guerra, della tirannide napoleonica e della negazione della libertà. Il 26 maggio 1870 la colonna venne abbattuta: ventimila parigini applaudirono, entusiasti, l’evento.