C’è un periodo nel volgere della storia
dell’arte che, anziché dagli artisti o dalla loro poetica, prende il nome da un
grande committente: si tratta dell’epoca rudolfina, dell’arte, cioè, messa in
opera dai pittori e dagli scultori reclutati da Rodolfo II d’Asburgo.
Siamo nell’ultimo quarto del secolo XVI. E’
il momento delle Wunderkammer, le
stanze delle meraviglie, nelle quali vengono raccolti i prodotti più
straordinari del mondo della natura, non escluso l’oggetto più prezioso, il
creduto corno dell’unicorno.
Rodolfo si circonda di alchimisti, maghi,
ciarlatani e di artisti ai quali chiede
opere stravaganti e particolari.
Il
pittore che lo delizia di più è Giuseppe Arcimboldo, che fu accolto a Praga, la
nuova capitale “con grande umanità et con honorato stipendio”. Le sue figurazioni allegoriche, che egli chiama Teste composte, sono ritratti burleschi
che realizza accostando immagini di frutta, ortaggi, fiori, pesci, uccelli in
funzione del tema che affronta.
Così la Primavera è una figura di donna composta di fiori
di ogni tipo e l’Autunno è un uomo imprigionato dentro una botte e i cui
lineamenti sono resi con un intreccio di grappoli d’uva e di pampini.
Però
quello che maggiormente entusiasma Rodolfo è il dipinto che “real imago asconde”
e cioè il suo ritratto nella veste di Vertunno, il dio delle mutazioni
stagionali. Arcimboldo ritrae l’imperatore con una pera al posto del naso e due
asparagi come baffi. A tal punto piacque il dipinto al sovrano che
nominò il pittore conte palatino.
Nel 1611 si spegne Rodolfo II e gli succede
il fratello Mattia, uomo di tutta altra indole. L’insieme di pittori e scultori
che popolavano la corte si disperde, finisce un’epoca interessante e singolare.
L’Arcimboldo ritorna a Milano dove non
trova la stessa estimazione che aveva
ottenuto a Praga.
Saranno i surrealisti, quattro secoli dopo, a
riscoprirlo, riproporlo alla critica e considerarlo un loro predecessore.
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