Nel 1814
Francisco Goya presenta questo quadro al Consiglio della Reggenza costituito in
Spagna in attesa del ritorno del nuovo sovrano, Ferdinando, il figlio di Carlo
IV. Goya accompagna il dipinto con uno scritto in cui afferma di voler
perpetuare con i suoi pennelli “le più notevoli ed eroiche azioni e scene della
nostra gloriosa insurrezione contro il tiranno d’Europa”. Il Consiglio, però,
diffida del pittore: quando viene decisa un’epurazione degli addetti al palazzo
reale nel periodo dell’occupazione francese, il suo nome viene inserito
nell’elenco degli indagati. In effetti Goya era stato da sempre in contatto con
i gruppi liberali, gli iluminados,
che propugnavano un rinnovamento nella vita sociale e culturale della Spagna ed
erano stati favorevoli ai francesi dai quali si attendevano comportamenti conseguenti
ai principi progressisti. Tutte queste speranze si erano disfatte di fronte a
una realtà di mostruosa evidenza: i francesi si rivelavano dei violentatori,
autori di rapine e omicidi senza senso.
Goya ne è testimone e in questo dipinto, che
rappresenta la fucilazione di un gruppo di patrioti, raggiunge il più alto
grado di drammaticità e di suggestione rappresentando il modo diverso con il quale i condannati
affrontano il loro destino, con rabbia, con terrore, con rassegnazione.
Tornato in patria e salito al trono al posto
del padre, Ferdinando VII rivela presto un volto di sovrano dispotico e
reazionario instaurando un regime di autentico terrore.
Goya, caduto in sospetto presso gli ambienti
di corte, non si sente sicuro in patria, lascia la Spagna e si rifugia a
Bordeaux, dove muore nel 1828.
Quando, nel 1840, Théophile Gautier,
appassionato ispanofilo e autore di un fortunato Voyage en Espagne, si reca a Madrid, pensa di andare ad ammirare
nel Museo del Prado il dipinto di Goya 3
maggio 1808. Non lo trova: per quasi quaranta anni il quadro era stato
relegato nei depositi del museo. Oggi sta nell’elenco dei quattordici dipinti
più importanti presenti al Prado.
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