martedì 9 febbraio 2016

LA CENA IN CASA DI LEVI




Agli inizi del 1571 un incendio distrugge il dipinto di Tiziano che ornava il refettorio del convento di san Zanipolo a Venezia e che rappresentava l’Ultima Cena. Tiziano è ormai sulla novantina ed è impensabile che possa realizzare una nuova versione. Viene dato l’incarico a Paolo Veronese e due anni dopo il pittore consegna l’enorme tela che i parrocchiani accolgono con entusiasmo. Non così il priore del convento. In corso d’opera aveva già chiesto di sostituire con la figura della Maddalena il grosso cane che stava al centro del dipinto e il pittore non l’aveva accontentato. Ma nel quadro c'erano troppi elementi ritenuti disdicevoli e contrari alla retta dottrina cattolica. Perché aveva messo quelle figure di ubriachi, buffoni, nani e armigeri tedeschi? E poi cani e papagalli. E quell’uomo che alla stessa tavola dove sta Gesù compie il gesto sconveniente di pulirsi i denti con la forchetta. E quel servitore che perdeva sangue dal naso. Di tutto questo il Veronese dovrà difendersi davanti ai giudici della Santa Inquisizione. E lo fa con intelligenza dichiarando che “noi pittori si pigliamo licenzia che si pigliano i poeti e i matti”. E aggiunge: “Se il quadro li avanza spazio, io l’adorno di figure, secondo le invenzioni”. Non è una grande linea di difesa, ma quanto basta per non farlo condannare. Dovrà solo eliminare l’episodio dell’epistassi del servo e dipingere in chiare lettere una scritta che dice che questa è una cena offerta da Levi a Gesù e non l’Ultima Cena. E il dipinto viene restituito al gradimento dei fedeli.

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