Agli
inizi del 1571 un incendio distrugge il dipinto di Tiziano che ornava il
refettorio del convento di san Zanipolo a Venezia e che rappresentava l’Ultima Cena. Tiziano è ormai sulla
novantina ed è impensabile che possa realizzare una nuova versione. Viene dato l’incarico
a Paolo Veronese e due anni dopo il pittore consegna l’enorme tela che i
parrocchiani accolgono con entusiasmo. Non così il priore del convento. In
corso d’opera aveva già chiesto di sostituire con la figura della Maddalena il
grosso cane che stava al centro del dipinto e il pittore non l’aveva
accontentato. Ma nel quadro c'erano troppi elementi ritenuti disdicevoli e
contrari alla retta dottrina cattolica. Perché aveva messo quelle figure di
ubriachi, buffoni, nani e armigeri tedeschi? E poi cani e papagalli. E
quell’uomo che alla stessa tavola dove sta Gesù compie il gesto sconveniente di
pulirsi i denti con la forchetta. E quel servitore che perdeva sangue dal naso.
Di tutto questo il Veronese dovrà difendersi davanti ai giudici della Santa
Inquisizione. E lo fa con intelligenza dichiarando che “noi pittori si pigliamo
licenzia che si pigliano i poeti e i matti”. E aggiunge: “Se il quadro li
avanza spazio, io l’adorno di figure, secondo le invenzioni”. Non è una grande
linea di difesa, ma quanto basta per non farlo condannare. Dovrà solo eliminare
l’episodio dell’epistassi del servo e dipingere in chiare lettere una scritta
che dice che questa è una cena offerta da Levi a Gesù e non l’Ultima Cena. E il dipinto viene
restituito al gradimento dei fedeli.
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