Nel 1864
Gustave Courbet dipinge il suo quadro più impegnativo, L’atelier dell’artista, che doveva rappresentare, spiegava il pittore,
“sette anni della mia vita artistica e morale”. Raffigurava il pittore al
lavoro in uno studio enorme ed affollato. Era sua intenzione presentarlo
all’Esposizione Universale, ma non venne
accolto con la motivazione che il quadro appariva volgare. Delacroix dirà:
“Hanno scartato una delle opere più singolari del nostro tempo”.
Quella che, soprattutto, non veniva
accettata era la figura della modella nuda in mezzo allo studio: non si capì
che doveva rappresentare a un tempo la musa ispiratrice e la nuda verità. Al
centro del dipinto c’era Courbet stesso intento a dipingere un paesaggio e una
folla di personaggi divisi in due gruppi. Aveva messo a destra “la gente che
vive di vita”: gli amanti dell’arte, pittori, letterati, filosofi. Vi si
riconoscevano Baudelaire e l’anarchico Proudhon.
A sinistra “la gente che vive di morte”: un
rabbino, una prostituta, un becchino, una donna miserabile che allatta un
bambino. Per terra sono sparsi un
mandolino, un cappello di paglia, un pugnale, simboli di quell’arte romantica
che Courbet aveva ripudiato a favore di un’arte legata alla realtà
contemporanea, non fine a sé stessa come l’arte del passato.
Courbet avrà l’appoggio di artisti come
Daumier e Corot, di letterati come Murger e Champfleury e di uomini politici
come Adolphe Thiers che un giorno troverà dall’altra parte dello schieramento
politico.
Dopo il rifiuto del Salon, Courbet colloca
il quadro, insieme ad altre sue opere, nel Padiglione del Realismo che ha fatto
edificare a sue spese. Ci si aspettta che arrivino centomila visitatori. E
invece è un disastro.
E’ il quadro più misterioso dipinto da
Courbet. La simbologia complessa che era alla base del dipinto e che, pure, lui
aveva spiegato nel catalogo della mostra, che diverrà il Manifesto del Realismo,
resterà oscura al grande pubblico.
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