martedì 9 febbraio 2016

L'ATELIER DELL'ARTISTA





Nel 1864 Gustave Courbet dipinge il suo quadro più impegnativo, L’atelier dell’artista, che doveva rappresentare, spiegava il pittore, “sette anni della mia vita artistica e morale”. Raffigurava il pittore al lavoro in uno studio enorme ed affollato. Era sua intenzione presentarlo all’Esposizione Universale, ma  non venne accolto con la motivazione che il quadro appariva volgare. Delacroix dirà: “Hanno scartato una delle opere più singolari del nostro tempo”.
   Quella che, soprattutto, non veniva accettata era la figura della modella nuda in mezzo allo studio: non si capì che doveva rappresentare a un tempo la musa ispiratrice e la nuda verità. Al centro del dipinto c’era Courbet stesso intento a dipingere un paesaggio e una folla di personaggi divisi in due gruppi. Aveva messo a destra “la gente che vive di vita”: gli amanti dell’arte, pittori, letterati, filosofi. Vi si riconoscevano Baudelaire e l’anarchico Proudhon.
  A sinistra “la gente che vive di morte”: un rabbino, una prostituta, un becchino, una donna miserabile che allatta un bambino.  Per terra sono sparsi un mandolino, un cappello di paglia, un pugnale, simboli di quell’arte romantica che Courbet aveva ripudiato a favore di un’arte legata alla realtà contemporanea, non fine a sé stessa come l’arte del passato.
  Courbet avrà l’appoggio di artisti come Daumier e Corot, di letterati come Murger e Champfleury e di uomini politici come Adolphe Thiers che un giorno troverà dall’altra parte dello schieramento politico.
    Dopo il rifiuto del Salon, Courbet colloca il quadro, insieme ad altre sue opere, nel Padiglione del Realismo che ha fatto edificare a sue spese. Ci si aspettta che arrivino centomila visitatori. E invece è un disastro.
  E’ il quadro più misterioso dipinto da Courbet. La simbologia complessa che era alla base del dipinto e che, pure, lui aveva spiegato nel catalogo della mostra, che diverrà il Manifesto del Realismo, resterà oscura al grande pubblico.          

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