martedì 9 febbraio 2016

LA CROCIFISSIONE



   


Nel 1942, in piena guerra, viene indetta la terza edizione del Premio Bergamo e Renato Guttuso si piazza al  secondo posto con la sua Crocifissione. Si tratta di un dipinto di notevoli dimensioni affollato dai personaggi del racconto evangelico e al quale il pittore ha lavorato per due anni. La composizione è fuori dall’iconografia tradizionale. Si moltiplicano i punti di vista: le tre croci sono disposte in diagonale e il viso del Cristo è nascosto dalla croce di uno dei due ladroni, sicché possiamo solo immaginare la smorfia del dolore sul suo volto. Il paesaggio non evoca il Golgota, ci sono degli edifici realizzati in modo sintetico che  forse vogliono dire che si tratta di una città bombardata. In primo piano appaiono gli strumenti del martirio. Tutto è reso con colori violenti e crudi, con un effetto di realismo intriso di pathos.
  Fra i personaggi c’è, a cavallo, il centurione che ha in mano l’asta con in cima la spugna imbevuta di aceto, c’è l’uomo che si gioca a dadi la tunica di Gesù, e c’è la Maddalena, nuda. È soprattutto la resa di questa figura che sarà motivo di scandalo specialmente negli ambienti ecclesiastici meno avveduti. A Guttuso viene dato l’appellativo di pictor diabolicus, per aver realizzato un’opera blasfema e immorale.        
    L’Osservatore romano parlerà di questo dipinto come di “un baccanale orgiastico, un oltraggio crudo e villano verso la nostra fede”. Il vescovo di Bergamo vieterà ai fedeli la visione del quadro e stabilirà di sospendere a divinis i membri del clero che fossero andati a vederla. Si chiede che il dipinto venga ritirato dalla mostra, ma la proposta non è accolta.
    Passeranno gli anni e negli ambienti cattolici avverrà un ripensamento. Monsignor De Luca dirà che nell’occasione si era ceduto solo all’impulso a protestare e a condannare senza sforzarsi di comprendere. Padre Turoldo scriverà che il quadro di Guttuso è “una narrazione di natura biblica, di una Bibbia in fiamme mai finita come in grado di proiettarsi nel futuro che è la nostra vita”.
   Già alla presentazione del quadro Guttuso non aveva nascosto le sue intenzioni: ”Questo è tempo di guerrra e di massacri. Volevo dipingere questo supplizio del Cristo come una scena di oggi, come simbolo di  tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee”.

GUERNICA






Gernika, 26 aprile 1937. Quattro bombardieri tedeschi sganciano sulla cittadina basca un carico di bombe che spargono morte e rovina. È la prima volta nella storia che l’aviazione viene usata per colpire la popolazione civile. Franco aveva chiesto all’alleato germanico di dare al popolo basco questo sanguinoso ammonimento contro ogni segno di indipendenza e di rivolta. Non si saprà mai con precisione il numero dei morti.    
Scoppia in Picasso, che è al culmine del successo, la rabbia e l’indignazione e si dedica alla realizzzazione di un quadro dalle dimensioni straordinarie. Fa alcune prove di colore, ma rinuncia, il dipinto vivrà solo del bianco e del nero. “Era troppo in collera”, dirà Man Rey, “per darsi la pena delle sottigliezze del colore”.

Sul lato sinistro del dipinto c’è la testa di un toro che incombe sul volto di una donna che stringe fra le braccia il figlioletto morto, una sorta di Pietà laica. Sotto la donna c’è spazio per un uomo che ha in mano una spada spezzata. Al centro Picasso dipinge un cavallo straziato, simbolo delle vittime del franchismo. Sulla destra figura una donna con le braccia alzate che chiede aiuto e vendetta al cielo, e tutto il quadro presenta particolari di braccia, gambe, piedi.

Al suo primo apparire Guernica non fu accolto con unanime favore. né da parte di  dirigenti repubblicani né da parte di qualche intellettuale come Luís Aragón e Rafael Alberti. Particolarmente duro il giudizio di Buñuel: “Detesto tutto di quel quadro dalla fattura magniloquente alla politicizzazione a ogni costo della pittura”. Anche Sartre trovava esagerata la simbologia sottesa al dipinto.
Di parere opposto lo scrittore Jean Casson: “Prima di ora la pittura di Picasso aveva rifiutato ogni significato, Guernica, invece, trabocca di presenza, di sogni, di grida”. 
E c’è chi pensa che Guernica rappresenti per l’arte moderna quello che la volta della Sistina ha rappresentato per la pittura del Cinquecento.

L'UOMO CHE CONTROLLA L'UNIVERSO

   



I pittori muralisti messicani intendevano tenere viva l’idea rivoluzionaria e parlare al popolo nel modo più diretto con una pittura da realizzarsi su ampie superfici aperte a una fruizione  collettiva. Il più famoso di loro è Diego Rivera.
 Nel 1921 realizza una composizione allegorica sul tema della nascita del popolo messicano: fulgore e decadenza degli indios, attuale miseria dei peones. Tutto reso con una tavolozza ricca di colori aspri e suntuosi. 
   L’anno dopo Rivera lascia il suo paese e va negli Stati Uniti perché, dice, “sentivo che mi mancava un’esperienza per poter veramente dipingere il mondo moderno in ogni suo aspetto, mi mancava l’esperienza della civiltà meccanica, l’esperienza della vita industriale”. Ottiene una grande affermazione con un affresco raffigurante l’Allegoria della California nel quale celebra i cercatori d’oro, gli ingegneri, gli operai che hanno installato i pozzi di petrolio determinando lo sviluppo economico di quello stato.
    Sull’onda di questo successo, John Davidson Rockefeller, il più grande imprenditore di ogni tempo nel campo dell’industria petrolifera, lo convoca a New York e gli commissiona un trittico per il Rockefeller Center, un edificio sulla Quinta Strada destinato a essere considerato l’emblema del capitalismo. E qui il successo del pittore messicano negli Stati Uniti ha fine, perché durante la lavorazione del murale, nel quale ha l’aiuto del giovane Ben Shahn, avviene un incidente di carattere politico. Nell’affresco che aveva per tema L’uomo al bivio in cerca di un futuro nuovo e migliore, Rivera ha raffigurato Lenin come fondatore di uno stato socialista capace di superare i conflitti sociali. Rockefeller ritiene l’inserimento del ritratto del leader comunista come un insulto personale e chiede a Rivera di cancellare dall’affresco il volto di Lenin ma il pittore si rifiuta di farlo. Le pressioni degli azionisti del gruppo e degli organi di stampa convincono i Rockefeller a sospendere i lavori e poi a demolire la parete affrescata.

  Rivera ritorna in patria e dipinge lo stesso murale nel Palazzo delle Belle Arti a Città del Messico.


L'ASSENZIO


  


 Dopo l’Olympia, un altro dipinto susciterà scalpore a Parigi. Si tratta del quadro In un caffé che Edgar Degas presenta nel 1876 alla seconda mostra degli impressionisti con il titolo In un caffé, che presto verrà mutato in L’assenzio. La scena ha una precisa ambientazione: è un angolo della Nouvelle Athenes, il caffé prediletto dagli artisti del’epoca. I due personaggi dovrebbero rappresentare un clochard e una donna di facili costumi inebetiti dall’assenzio, un distillato di alta gradazione alcolica che verrà più avanti proibito per i suoi effetti stupefacenti.
   In realtà si tratta di una coppia di amici di Degas che si prestano a interpretare i ruoli assegnati loro dal pittore.  L’uomo è Marcelin Desboutin, un buon pittore ma soprattutto un ottimo incisore che aveva a sua volta ritratto Degas, ma anche Manet, Renoir, Berthe Morisot.
  Lei è Ellen Andrée, una donna di grande fascino che aveva iniziato la sua carriera professionale come modella: è la giovane con il bicchiere  in mano al centro della famosa Colazione dei canottieri di Renoir. Ma aveva posato anche per Manet e Toulouse-Lautrec. Era divenuta attrice di successo in ruoli brillanti presenti nelle commedie di Courteline e di Sacha Guitry. È Ellen Andrée che pretende che Degas faccia sapere a tutti che lei è del tutto astemia. Ma intanto copre il suo ruolo con professionale perfezione: si è vestita nel modo più trasandato, ha ai piedi delle vecchie scarpe e in testa un cappellino in posa instabile.
    I due personaggi sono vicini ma non comunicano tra loro, lo sguardo è perso nel vuoto. Degas ci fa sapere che esiste un terzo personaggio non raffigurato ma la cui presenza è data da un giornale e da un calamaio posati sul tavolino, ed è dal suo punto di vista che noi assistiamo alla scena.
 L’opera provocò grande scandalo fra i visitatori più ottusi e superficiali che vollero vedervi la rappresentazione del vizio e dell’abbrutimento. Peggiorò la situazione il fatto che Zola ammise di aver preso ispirazione da un quadro come questo per certe pagine dell’Assomoir.
  Alcuni anni dopo anche Picasso tratterà il tema dei bevitori di assenzio con gli stessi esiti di struggente malinconia.

LA CULLA

    


Quando nel 1874, nei locali messi a disposizione dal fotografo Nadar, viene inaugurata la mostra di pittori riuniti sotto la sigla di ”Societé Anonyme des Artistes”, viene coniato il termine "impressionisti", ma in senso nettamente  dispregiativo. C’era chi affermava che questi pittori dovevano soffrire di una sconosciuta malattia degli occhi, c’era chi si affrettava a pulirsi gli occhiali non
potendo credere che quei quadri avessero un senso.


   C’era chi diceva che questi pittori avevano preso delle tele, dei pennelli, dei colori e gettato a caso sulle tele qualche macchia e la loro firma. Questo era quanto pensava la maggioranza del pubblico.
  Particolarmente feroci furono le critiche nei riguardi del quadro dell’unica donna presente alla mostra, Berthe Morisot, La culla. Louis Leroy trovò l’approvazione dei  lettori  dello Charivari quando scrisse che a questa pittrice “non interessavano i dettagli: se doveva dipingere una mano le bastava dare tante pennellate in lunghezza quante sono le dita e il problema era risolto”. Altrettanto duro era stato Albert Wolff  che nel Figaro  scrisse: “La pittura della Morisot è al limite di uno spirito in delirio”. Non meno benevolo è Jean Messire su Le Soir: “Credo che se Berthe Morisot volesse imparre a  disegnare e a dipingere potrebbe ancora imparare a disegnare e a dipingere”.
   Sul fronte opposto è Georges Rivère che su L’Impressioniste difende le ragioni della nuova pittura e dichiara che la sua critica si limita a poche righe perché l’opera non ha bisogno di essere difesa. E Jules-Antoine Castagnary nella sua recensione della prima mostra degli impressionisti afferma che “non si trovano in questa esposizione immagini più graziose e delicate. L’esecuzione è in pieno acccordo con l’idea che l’artista ci voleva comunicare”.
  All’accoglienza favorevole della critica più avveduta farà riscontro un certo successo commerciale che si prolungherà nel tempo. Il quadro Cache-Cache, che la Morisot aveva presentato assieme a La culla, nel 1999 viene venduto da Sothebys a New York per quasi quattro milioni di dollari.
                                               

OLYMPIA

  


Nel 1865 Manet presenta al Salon il suo dipinto Olympia. Il pittore dichiara di essersi ispirato alla famosa Venere di Urbino di Tiziano che aveva copiato durante un soggiorno a Firenze. Ma il risultato è un contrappunto assolutamente dissacrante. Quella di Tiziano è una nobildonna, giunonica e morbida, che è nuda perché aspetta che le portino i vestiti. E comunque tutto si svolge in un ambiente raffinato. 
  Il quadro di Manet rappresenta una donna nuda distesa su un letto disfatto, lo sguardo diretto in segno di sfida verso l’osservatore, con una sfrontatezza decisamente volgare: ha dei fiori tra i capelli, una pantofola infilata nel piede, l’altra lasciata cadere. Nella mano destra stringe una rosa, l’altra mano copre il sesso. La moderna Venere non è un ideale di bellezza:  il corpo è magro, il collo tozzo, le gambe corte. 
   All’epoca la raffigurazione del nudo era ammessa anzi ipocritamente apprezzata, ma solo in dipinti di soggetto mitologico o di ambientazione esotica. Qui il nudo, invece, era calato in una situazione contemporanea con un’audacia assolutamente nuova.
   Ci fu chi credette di riconoscere nella donna una nota prostituta parigina ripresa sul posto di lavoro in attesa del prossimo cliente che si è fatto anticipare da un mazzo di fiori. Si trattava, invece, di una modella professionale che Manet aveva già utilizzato  nella Colazione sull’erba. 
    Rifiutata al Salon ufficiale, l’opera venne esposta nel Salon des Refusés. Ma anche qui provocò critiche aspre e violente: ci furono visitatori che afferrarono gli ombrelli e tentarono di sfregiarla. Il quadro fu sistemato sopra una porta in modo che pochi ci facessero caso. Ci furono naturalmente critiche più inerenti alle caratteristiche formali del dipinto. Si rimproverò il contrasto troppo elementare tra il bianco-luce e il nero-oscurità. E di quel nero Théophile Gautier disse che gli sembrava un colore da lucido di scarpe.
   Dopo la morte di Manet, Claude Monet, che ormai aveva acquisito fama e autorevolezza, si fece promotore di una sottoscrizione per far acquistare l’Olympia dallo Stato e il quadro venne accolto nel Museo del Luxembourg. Oggi è considerato uno dei dipinti che hanno segnato la nascita della pittura moderna.

LA COLONNA VENDÔME

   

Nei giorni della Comune viene istituita a Parigi la Federazione degli artisti che si propone di salvare le opere d’arte e i monumenti dal pericolo dei bombardamenti. Durante una seduta Courbet dice che bisogna scardinare (debulloner) la Colonna Vendôme. Però, presagisce il pittore, “Vedrete che questa colonna mi schiaccerà”.
  In epoca napoleonica si era pensato di portar via da Roma a pezzi la Colonna Traiana per ricomporla e inalzarla al centro di Place Vendôme sfruttando la forma ottagonale che ha quella piazza. Fortunatamente questa che sarebbe stata la più clamorosa razzia perpretata dai rapaci funzionari napoleonici, avrebbe comportato un troppo complicato sforzo logistico. E si rinunciò all’impresa.
Si pensò allora di costruire una enorme colonna alta quarantaquattro metri e composta da novantotto cilindri di pietra che poi sarebbero stati ricoperti dal bronzo ricavato  dalla fusione dei cannoni requisiti agli austriaci e ai russi nella battaglia di Austerlitz.
  Una schiera di scultori modellarono quattrocentocinque placche in bronzo con le quali furono ricoperti i cilindri di pietra, dando luogo a un ininterrotto bassorilievo a spirale, a imitazione della Colonna Traiana. Rapppresentavano settanta scene relative alle campagne militari condotte da Napoleone Bonaparte. Napoleone III fece collocare in cima alla colonna una statua di Napoleone  in veste di imperatore romano.      
  I comunardi accettarono la proposta di Courbet e decisero di demolire questo monumento perché lo vedevano come un segno di barbarie, simbolo delle atrocità della guerra, della tirannide napoleonica e della negazione della libertà. Il 26 maggio 1870 la colonna venne abbattuta: ventimila parigini applaudirono, entusiasti, l’evento.

L'ATELIER DELL'ARTISTA





Nel 1864 Gustave Courbet dipinge il suo quadro più impegnativo, L’atelier dell’artista, che doveva rappresentare, spiegava il pittore, “sette anni della mia vita artistica e morale”. Raffigurava il pittore al lavoro in uno studio enorme ed affollato. Era sua intenzione presentarlo all’Esposizione Universale, ma  non venne accolto con la motivazione che il quadro appariva volgare. Delacroix dirà: “Hanno scartato una delle opere più singolari del nostro tempo”.
   Quella che, soprattutto, non veniva accettata era la figura della modella nuda in mezzo allo studio: non si capì che doveva rappresentare a un tempo la musa ispiratrice e la nuda verità. Al centro del dipinto c’era Courbet stesso intento a dipingere un paesaggio e una folla di personaggi divisi in due gruppi. Aveva messo a destra “la gente che vive di vita”: gli amanti dell’arte, pittori, letterati, filosofi. Vi si riconoscevano Baudelaire e l’anarchico Proudhon.
  A sinistra “la gente che vive di morte”: un rabbino, una prostituta, un becchino, una donna miserabile che allatta un bambino.  Per terra sono sparsi un mandolino, un cappello di paglia, un pugnale, simboli di quell’arte romantica che Courbet aveva ripudiato a favore di un’arte legata alla realtà contemporanea, non fine a sé stessa come l’arte del passato.
  Courbet avrà l’appoggio di artisti come Daumier e Corot, di letterati come Murger e Champfleury e di uomini politici come Adolphe Thiers che un giorno troverà dall’altra parte dello schieramento politico.
    Dopo il rifiuto del Salon, Courbet colloca il quadro, insieme ad altre sue opere, nel Padiglione del Realismo che ha fatto edificare a sue spese. Ci si aspettta che arrivino centomila visitatori. E invece è un disastro.
  E’ il quadro più misterioso dipinto da Courbet. La simbologia complessa che era alla base del dipinto e che, pure, lui aveva spiegato nel catalogo della mostra, che diverrà il Manifesto del Realismo, resterà oscura al grande pubblico.          

LA LIBERTÀ CHE GUIDA IL POPOLO




È il quadro più famoso di Eugène Delacroix. Rappresenta i moti rivoluzionari che, nel giro di tre giorni, portarono, nel 1830, alla caduta di Carlo X sostituito sul trono da Luigi Filippo. A una monarchia assolutistica sarebbe dovuta subentrare una monarchia costituzionale.
   Che siamo a Parigi lo dicono le due torri di Notre Dame che si vedono sul fondo. La donna che sventola il tricolore, maestosa e giunonica, un insieme di popolana e di dea della statuaria greca, è atteggiata in posa trionfale. In testa ha il cappello frigio di rivoluzionaria memoria e con la mano sinistra stringe un fucile. Il volto è rivolto all’indietro per esortare una non raffigurata folla di rivoltosi a seguirla. È il simbolo, allo stesso tempo, della Libertà e della Patria.
  I parigini intorno a lei hanno le armi in pugno  e sono rappresentativi di tutte le classi sociali, borghesi e popolani: c’è l’intellettuale con il cilindro in testa e il proletario con una faccia truce e la spada sguainata. In primo piano ci sono i corpi dei soldati morti negli scontri, stanno a significare la morte. Ma tutto il dipinto è un cumulo di simboli. Il ragazzo proteso verso la donna simboleggia la fede e quello con la pistola in mano il coraggio. E’ un’allegoria, ma un’allegoria che si basa sul reale
    Delacroix ha abbandonato il romanticismo delle rievocazioni  medievali e dell’ambientazione esotica per realizzare un quadro-manifesto legato alla contemporaneità. 
     Nel personaggio dell’intellettuale ha raffigurato se stesso. Tutto questo farebbe pensare che anche lui abbia preso parte personalmente alla rivolta, ma non è così, lo ammetterà egli stesso: “Se non ho combattuto per la patria, almeno ho dipinto per essa”.   
   La raffigurazione della Libertà con il seno scoperto fu giudicata indecente e si vietò che il quadro venisse esposto in pubblico, ma in verità non si voleva rammemorare troppo l’avvenimento. Solo dopo la caduta di Luigi Filippo nel 1848, il presidente della repubbblica, Luigi Carlo Napoleone Bonaparte, consentì che fosse esposto in pubblico. Era il momento del cosiddetto “impero liberale”.

TRE MAGGIO 1808



Nel 1814 Francisco Goya presenta questo quadro al Consiglio della Reggenza costituito in Spagna in attesa del ritorno del nuovo sovrano, Ferdinando, il figlio di Carlo IV. Goya accompagna il dipinto con uno scritto in cui afferma di voler perpetuare con i suoi pennelli “le più notevoli ed eroiche azioni e scene della nostra gloriosa insurrezione contro il tiranno d’Europa”. Il Consiglio, però, diffida del pittore: quando viene decisa un’epurazione degli addetti al palazzo reale nel periodo dell’occupazione francese, il suo nome viene inserito nell’elenco degli indagati. In effetti Goya era stato da sempre in contatto con i gruppi liberali, gli iluminados, che propugnavano un rinnovamento nella vita sociale e culturale della Spagna ed erano stati favorevoli ai francesi dai quali si attendevano comportamenti conseguenti ai principi progressisti. Tutte queste speranze si erano disfatte di fronte a una realtà di mostruosa evidenza: i francesi si rivelavano dei violentatori, autori di rapine e omicidi senza senso.
   Goya ne è testimone e in questo dipinto, che rappresenta la fucilazione di un gruppo di patrioti, raggiunge il più alto grado di drammaticità e di suggestione rappresentando  il modo diverso con il quale i condannati affrontano il loro destino, con rabbia, con terrore, con rassegnazione.
  Tornato in patria e salito al trono al posto del padre, Ferdinando VII rivela presto un volto di sovrano dispotico e reazionario instaurando un regime di autentico terrore.
   Goya, caduto in sospetto presso gli ambienti di corte, non si sente sicuro in patria, lascia la Spagna e si rifugia a Bordeaux, dove muore nel 1828.
  Quando, nel 1840, Théophile Gautier, appassionato ispanofilo e autore di un fortunato Voyage en Espagne, si reca a Madrid, pensa di andare ad ammirare nel Museo del Prado il dipinto di Goya 3 maggio 1808. Non lo trova: per quasi quaranta anni il quadro era stato relegato nei depositi del museo. Oggi sta nell’elenco dei quattordici dipinti più importanti presenti al Prado.

IL GIURAMENTO DELLA PALLACORDA

    



 Qui si parla di un dipinto mai portato a termine. Nel giugno del 1790 la disastrosa situazione economica in cui versa la Francia rende inevitabile la convocazione dei tre Stati Generali, nobili, clero, popolo. Luigi XVI  con un evidente pretesto, vieta ai rappresentanti del Terzo Stato di riunirsi in una assemblea separata e questi decidono di spostarsi in un grande spazio destinato al gioco della pallacorda. Giurano  di restare uniti contro il potere di nobiltà e clero fino a che non venga promulgata una nuova Cosituzione.
   Tra loro c’è Jacques-Louis David che decide di immortalare l’avvenimento ritraendo tutti i seicentotrenta partecipanti in un quadro dalle dimensioni enormi (10 metri per 7). Il progetto ha l’approvazione del Club dei Girondini al quale David aveva aderito. Viene bandita una sottoscrizione ma non vengono raccolti i fondi necessari. David si fermerà al disegno preparatorio. Ma anche in questo stadio il pittore riesce a rendere la drammaticità della situazione. Una frenetica agitazione si è impadronita degli astanti. C’è chi si sporge pericolosamente  dalle finestre, tra loro c’è anche Marat. Le tende sono agitate da un forte vento. Si dirà che è il vento della rivoluzione.
  Non si arresta, l’impegno politico di David. Alla Convenzione Nazionale voterà per la morte di Luigi XVI. La sua adesione ai proponimenti di Robespierre lo porterà per  un certo tempo in carcere. 
  Quando sorge l’astro del Bonaparte, David diventa il suo più ammirato seguace. Lo rappresenterà a cavallo mentra valica il passo del Gran san Bernardo, nel momento dell’incoronazione a imperatore e in altre situazioni.
  Dopo la Restaurazione, David dovrà trovare scampo in Belgio. Nessun pittore ha  mai vissuto in prima persona, come lui, il suo impegno politico. E il Giuramento, anche se incompiuto, verrà considerato il primo segnale della Rivoluzione Francese.

LA MORTE DEL GENERALE WOLFE



     



 A partire dal Cinquecento e in epoca caravaggesca, e poi per tutto il Settecento, calano in Italia govani pittori da ogni parte d’Europa per compiere la loro educazione artistica su modelli della pittura italiana. Benjamin West è il primo che viene dall’America del Nord, un’America inquieta ma ancora possedimento della Gran Bretagna. Apparteneva a una comunità di quaccheri sfuggiti alle persecuzioni delle quali erano vittime in Inghilterra. Loro peculiarità erano il rifiuto delle autorità ecclesiastiche, l’intendimento di liberare gli schiavi e la parità dei diritti delle donne. Fu questo ultimo proposito a determinare l’amicizia tra West e Angelica Kauffmann, che in quel momento si trovava anche lei a Roma. I due si trasferirono in Inghilterra e lì i loro destini si divisero.
    A Londra West ottiene grande successo come ritrattista, ma poi abbandonerà questa attività per dedicarsi esclusivamente a dipinti di soggetto storico.
    L’esempio più riuscito di questo genere è La morte del generale Wolfe, che aveva trovato la morte guidando la spedizione che avrebbe avuto ragione della resistenza dei francesi asserragliati entro le mura di Quebec. West si documenta minuziosamente sulle uniformi che gli inglesi avevano indossato nella circostanza e sulle armi che avevano a disposizione; ma poi accetta di introdurre nel dipinto degli elementi arbitrari: gli ufficiali britannici che, pur avendo partecipato alla battaglia, non avevano assistito alla morte di James Wolfe, vogliono essere ritratti nel quadro, e West tranquillamente li inserisce, accettando da ognuno di loro cento sterline. Sovrasta la scena la figura di un ufficiale che ha con sè una grande bandiera, segno evidente che la battaglia è stata vinta dagli inglesi. I molti elementi realistici lasciano spazio a una rappresentazione di carattere abbastanza melodrammatico.
  West è il primo pittore ad aver abbandonato le scene e i costumi del mondo antico per celebrare  momenti della storia contemporanea, precedendo Goya, David e i pittori che si dedicheranno a illustrare l’epopea napoleonica.
  La morte del generale Wolfe viene esposto alla Royal Academy e il successo è clamoroso. Al di là dell’apprezzamento di tipo estetico il dipinto esaltava negli inglesi il loro spirito imperialistico, la prospettiva di una Gran Bretagna protesa alla conquista di terre e mari lontani. Il più entusiasta è Giorgio III che commissiona a West una copia che vorrà tenere per sè.

PIAZZA SANT'IGNAZIO







Nel 1724   Benedetto XIII convoca a Roma l’architetto napoletano Filippo Raguzzini. Quando era vescovo di Benevento aveva avuto modo di vederlo all’opera mentre curava il restauro di alcuni palazzi, compreso quello vescovile, rovinati dal terremoto che aveva colpito la città. A Roma gli affida i lavori di restauro di alcune vetuste chiese. Il Raguzzini non si limita a riparare i danni ma interviene in modo creativo ricorrendo a elementi decorativi di vario genere, cornici di stucco, nicchie, sottili profilature.
Dimostrerà tutta la sua genialità  quando gli viene affidata la costruzione dell’Ospedale di San Gallicano. È qui che inventa qualcosa di nuovo nell’edilizia ospedaliera: un ballatoio esterno al fabbricato sul quale gli infermieri potevano muoversi aprendo e chiudendo le imposte senza disturbare i malati.
Sull’onda di questo successo professionale, Benedetto XIII gli dà un altro importante incarico. In occasione della canonizzazione del loro fondatore i Gesuiti avevano ingrandita e resa monumentale la chiesa di Sant’Ignazio e il papa ritiene “disdicevole che una chiesa e una facciata così insigne resti senza il dovuto prospetto e comodità di una piazza proporzionata”. 


L’architetto studia una nuova sistemazione con un carattere di vivacissima impronta scenografica costruendo tre palazzetti animati  da un gioco di superfici concave e superfici convesse ma staccati l’uno dall’altro, che sono come le quinte di una scena teatrale e hanno lo scopo di donare al passante, che sbuca nella piazza, un punto di vista e di prospettiva a sorpresa. Le facciate sono arricchite da balconi e ringhiere in ferro battuto. Si presentano come costruzioni  minuscole e apparentemente fragili come fossero delle carte da gioco in mano a un fanciullo.

L’impresa era stata finanziata da due famiglie nobili ma non per abitarvi. Sono il primo esempio di case costruite dalla nobiltà per trarne una rendita dandole in affitto.
Tutto il complesso non piace ai romani che chiamano questi edifici “burrò” dal nome dei bureaux, i mobili da studio con molti cassetti. Non da meno è il mondo accademico che accusa l’architetto di aver deturpato la città con quelle ridicole case a forma di canterani.
L'incombente voga neoclassica metterà ancor più nell’ombra questo che è, invece, il più originale e brioso esempio di “rococò romano”.







LA REGIA IMAGO



C’è un periodo nel volgere della storia dell’arte che, anziché dagli artisti o dalla loro poetica, prende il nome da un grande committente: si tratta dell’epoca rudolfina, dell’arte, cioè, messa in opera dai pittori e dagli scultori reclutati da Rodolfo II d’Asburgo.
Siamo nell’ultimo quarto del secolo XVI. E’ il momento delle Wunderkammer, le stanze delle meraviglie, nelle quali vengono raccolti i prodotti più straordinari del mondo della natura, non escluso l’oggetto più prezioso, il creduto corno dell’unicorno.
Rodolfo si circonda di alchimisti, maghi, ciarlatani e  di artisti ai quali chiede opere stravaganti e particolari.
Il pittore che lo delizia di più è Giuseppe Arcimboldo, che fu accolto a Praga, la nuova capitale “con grande umanità et con honorato stipendio”. Le sue  figurazioni allegoriche, che egli chiama Teste composte, sono ritratti burleschi che realizza accostando immagini di frutta, ortaggi, fiori, pesci, uccelli in funzione del tema che affronta.
Così la Primavera è una figura di donna composta di fiori di ogni tipo e l’Autunno è un uomo imprigionato dentro una botte e i cui lineamenti sono resi con un intreccio di grappoli d’uva e di pampini.
Però quello che maggiormente entusiasma Rodolfo è il dipinto che “real imago asconde” e cioè il suo ritratto nella veste di Vertunno, il dio delle mutazioni stagionali. Arcimboldo ritrae l’imperatore con una pera al posto del naso e due asparagi come baffi. A tal punto piacque il dipinto al sovrano che nominò il pittore conte palatino.
Nel 1611 si spegne Rodolfo II e gli succede il fratello Mattia, uomo di tutta altra indole. L’insieme di pittori e scultori che popolavano la corte si disperde, finisce un’epoca interessante e singolare. 
L’Arcimboldo ritorna a Milano dove non trova  la stessa estimazione che aveva ottenuto a Praga.
Saranno i surrealisti, quattro secoli dopo, a riscoprirlo, riproporlo alla critica e considerarlo un loro predecessore.

LA MORTE DELLA VERGINE


Nel 1605 i Carmelitani Scalzi di Santa Maria della Scala in Trastevere commissionano al Caravaggio una pala per una cappella privata. Doveva rappresentare la Morte della Vergine. Sanno bene che il pittore non è nuovo alle contestazioni dei committenti, era successo per la Madonna dei serpenti e per una raffigurazione di san Matteo, e perciò nel contratto fissano i dettami che doveva seguire nel rispetto delle indicazioni iconografiche volute dalla Controriforma. La morte doveva apparire come un transito verso l’al di là.
Il Caravaggio non se ne dà per inteso e realizza il quadro come  gli pare. Intanto rappresenta un ambiente estremamente modesto, desolato, la Vergine è vestita di un abito slacciato sul petto, ed è distesa su qualcosa che è più un catafalco che un letto, in una posa indecorosa e scomoda: il ventre appare gonfio e i piedi sono nudi e sporchi, i capelli in disordine, il braccio sinistro sta in una posa scomposta. Gli apostoli appaiono disperati e piangenti, non c’è il silenzio che esigeva il tema.
Non si sa quanti, oltre i committenti, abbiano visto il dipinto. Ma si conoscono le dicerie che erano subito circolate. Si disse che il pittore aveva preso a modello il corpo di una donna ripescata nel Tevere e che doveva trattarsi di una ben conosciuta prostituta che aveva deciso di suicidarsi e che il Caravaggio aveva già utilizzato come modella.
I frati sono ben lieti di cedere il quadro al primo offerente, che è un uomo di gusto fine. Si tratta di Pieter Paul Rubens che in quel momento è a Roma per decorare l’abside di Santa Maria in Valicella. Acquista il quadro per conto del duca Vincenzo Gonzaga e i frati si accontentano di 300 scudi. Presentato a Mantova, in pubblico, il dipinto riscuoterà l’entusiasmo della gente.  


LA CENA IN CASA DI LEVI




Agli inizi del 1571 un incendio distrugge il dipinto di Tiziano che ornava il refettorio del convento di san Zanipolo a Venezia e che rappresentava l’Ultima Cena. Tiziano è ormai sulla novantina ed è impensabile che possa realizzare una nuova versione. Viene dato l’incarico a Paolo Veronese e due anni dopo il pittore consegna l’enorme tela che i parrocchiani accolgono con entusiasmo. Non così il priore del convento. In corso d’opera aveva già chiesto di sostituire con la figura della Maddalena il grosso cane che stava al centro del dipinto e il pittore non l’aveva accontentato. Ma nel quadro c'erano troppi elementi ritenuti disdicevoli e contrari alla retta dottrina cattolica. Perché aveva messo quelle figure di ubriachi, buffoni, nani e armigeri tedeschi? E poi cani e papagalli. E quell’uomo che alla stessa tavola dove sta Gesù compie il gesto sconveniente di pulirsi i denti con la forchetta. E quel servitore che perdeva sangue dal naso. Di tutto questo il Veronese dovrà difendersi davanti ai giudici della Santa Inquisizione. E lo fa con intelligenza dichiarando che “noi pittori si pigliamo licenzia che si pigliano i poeti e i matti”. E aggiunge: “Se il quadro li avanza spazio, io l’adorno di figure, secondo le invenzioni”. Non è una grande linea di difesa, ma quanto basta per non farlo condannare. Dovrà solo eliminare l’episodio dell’epistassi del servo e dipingere in chiare lettere una scritta che dice che questa è una cena offerta da Levi a Gesù e non l’Ultima Cena. E il dipinto viene restituito al gradimento dei fedeli.

IL GIUDIZIO UNIVERSALE





Nella notte degli Ognissanti del 1541 viene scoperto l’affresco di Michelangelo che copre la parete dietro l’altare della Cappella Sistina e rappresenta il Giudizio Universale. Nessuno dei capolavori di quell’età d’oro dell’arte italiana che sarà detta Rinascimento spaccherà in due, come in questa circostanza, le valutazioni di quanti sono ammessi a vedere l’opera. Ci fu da una parte un’ ammirazione e una esaltazione senza limiti e dall’altra un cumulo di critiche e di riserve di ordine artistico, politico ma anche religioso.     
È un momento di tormentata tensione spirituale e c’è chi propone di mandare Michelangelo sotto il giudizio del Santo Uffizio con l’accusa di eresia. E’ indubbio che il pittore stava dalla parte di chi auspicava una riforma della Chiesa.
Il primo detrattore del Giudizio fu Paolo III. Fu talmente sconvolto quando vide per la prima volta l’affresco da essere sul punto di prendere la decisione di farlo distruggere.
Fu motivo di discussione la scelta di Michelangelo di dipingere gli angeli nudi e senza ali. Il Vasari considerava queste figure “oltre ogni bellezza straordinarie” ma altri le trovava semplici prove di virtuosismo anatomico, e alcuni dicevano che chi vedeva una figura di Michelengelo le vedeva tutte.
Per quel che riguarda la valutazione estetica, nel novero dei detrattori c’è Pietro Aretino, sostenitore a oltranza della superiorità dei pittori veneti e, sulla stessa linea, Ludovico Dolce, il biografo di Tiziano.
Sulla rappresentazione di alcuni personaggi ignudi si apre la polemica e viene dato l’incarico a Daniele da Volterra di porre rimedio alle nudità di alcune figure, cosa che egli fa con molta moderazione dipingendo a tempera sulle parti più intime dei leggeri panni svolazzanti.


Allo stesso pittore si dà, poi, l’incarico di modificare la posizione, considerata ambigua, di santa Caterina d’Alessandria e quella di san Biagio. Michelangelo aveva dipinto la santa nuda e con un seno prorompente. Il volterrano la riveste di un abito verde e rifà completamente la figura di san Biagio che prima appariva fissare la schiena  della donna e adesso volge invece il capo in direzione del Cristo. Abbiamo la possibilità di stabilire tutto questo perché il pittore Marcello Venusti aveva  fatto, su commissione del cardinal Alessandro Farnese, una copia, tuttora esistente, del Giudizio prima di ogni iniziativa censoria.
Gli  interventi vennero attuati in ossequio alle disposizioni emanate nell’ultima sessione del Concilio di Trento che proibivano qualunque rappresentazione che potesse avere carattere di oscenità.
Era il 1565  e Michelangelo era già morto nel febbraio dell’anno prima.